Ciò che accadde a Chernobyl nel 1986 è tristemente conosciuto in tutto il mondo, come anche i gravi effetti che la radioattività ha avuto e continua ad avere sulle persone nate negli anni successivi.
Il 26 aprile 1986 il Cremlino invitò lo scienziato professor Vassillij Nesterenko a recarsi a Chernobyl “per spegnere l’incendio”, sviluppatosi in seguito allo scoppio della centrale n. 4. Nesterenko si rese subito conto che la scienza era impreparata per un’operazione del genere, poiché la fiamma era originata dal plutonio: non rimaneva che attendere che la carica di plutonio si esaurisse. Visto che ci sarebbero voluti 70-80 anni circa, il professore ideò il famoso sarcofago: una copertura realizzata con particolari tipi di cemento che sarebbe stata abbattuta una volta esaurita la carica di plutonio. Intanto la gente, specialmente i bambini, veniva contagiata dai frutti della terra.
Agli inizi del 2000 l’MDE incontrò questo brillante professore, Vassillij Nesterenko, con cui studiò un particolare tipo di terapia per i bambini, della durata di tre settimane, da attuare in estate, con una particolare dieta e con l’aiuto di farmaci. I bambini furono suddivisi in due gruppi: i meno gravi sarebbero stati curati in un Campus bielorusso, mentre i più gravi all’estero (preferibilmente in Italia, in località marine ricche di iodio per salvaguardare la tiroide). Il professor Nesterenko fu incaricato di monitorare ogni singolo bambino in partenza, misurandone i gradi di radioattività, e di prescrivere gli appositi medicinali. Una volta rientrati lo stesso professore controllava se il tasso di radioattività era diminuito e di quanti punti. In questo modo i bambini, quasi sempre gli stessi, sono stati seguiti per diversi anni.
Dal 2003 al 2009, circa 500 bambini bielorussi hanno usufruito dell’assistenza del Movimento. L’organizzazione dei Campus, sia in Italia che in Bielorussia, fu affidata alla dirigenza dei volontari bielorussi. I volontari italiani, sempre attivi, funsero principalmente da supporto: si volle evitare qualsiasi “italianizzazione forzata” dei bambini. Sembra che l’idea sia stata apprezzata anche dagli educatori, sia italiani che bielorussi.
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